Effetto Jony Ive, 27 anni di gioielli Apple

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Dal laptop Powerbook allo sfortunato palmare Newton, dall'iPod che risollevò Apple alle varie generazioni di iMac all'iPad. Fino al successo con l'iPhone e l'Apple Watch. Una vita a disegnare l'innovazione

PER DARE l’idea della ricchezza, delle capacità e dell’inventiva di Jonathan Ive, per tutti Jony, 51enne capo del design di Apple e ultima eredità dell’epoca di Steve Jobs, basti pensare a una cifra: 5 mila brevetti registrati a suo nome, o comunque in qualche maniera legati ai diversi team di lavoro che ha coordinato nel corso di 27 anni di vita lavorativa a Infinite Loop e, poi, all’avveniristico Apple Park (a proposito, ha messo lo zampino anche sulla sede spaziale della Mela, pur firmata dallo studio dell’archistar Norman Foster). Forse ufficialmente sono un po’ di meno, si tratta di un dato fornito anni fa dall’ad di Apple Tim Cook, ma poco importa. La sostanza non cambia: Sir Jonathan, londinese classe 1967, ha perfino doppiato l’inventore più prolifico di tutti i tempi: niente meno che Thomas Edison, il papà della lampadina.

 
Tanti i gioielli sfornati dal suo genio, a partire dai Powerbook sui quali lavorò quando ancora non era un interno del gruppo, fra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, prima di trasferirsi negli Stati Uniti. All’epoca lavorava per la società di consulenza Tangerine. La famiglia di laptop ad alte prestazioni, mandata poi in pensione nel 2006, nacque infatti nel 1991 ed ebbe un successo immediato assorbendo il 40% di quel mercato negli Usa. Erano gli anni in cui il poco più che ventenne Ive disegnava e progettava di tutto (dagli spazzolini elettrici agli elettrodomestici) e quella versatilità gli sarebbe tornata utile nel corso della splendida epopea con la mela morsicata, cioè nella capacità di andare oltre gli standard dell’elettronica di consumo guardando alla società nella sua interezza, al carattere dei prodotti, al bisogno di bellezza di quel settore.
 

Effetto Jony Ive, 27 anni di gioielli Apple

Una volta assunto in Apple, dopo una prima campagna acquisti della Mela che cadde nel vuoto, si ritrovò alle prese con la seconda generazione del famigerato Newton, un palmare passato alla storia come uno dei più grandi flop del gruppo. Ma in fondo forse semplicemente troppo in anticipo sui tempi (basti pensare che supportava anche un rudimentale riconoscimento vocale). Il primo modello era uscito nel 1993, dunque appena arruolato dal colosso Ive si ritrovò a dover pensare alla successiva generazione: alla fine il palmare ne contò otto e il progetto fu annullato nel giro di un quinquennio. Superata la delusione per quei complicati anni di passaggio, il designer ritrovò nel 1997 in Steve Jobs ben più di un amministratore delegato: un mentore, una guida, un alleato con vedute comuni su design, estetica e innovazione.
 
Come si legge anche nella monumentale biografia del fondatore uscita nel 2011 e firmata da Walter Isaacson il creativo britannico fu forse uno di quelli con cui Jobs – dal carattere davvero complicato – ebbe i rapporti meno ruvidi. Tutto il contrario: “Steve e io guardavamo il mondo allo stesso modo”, ha spiegato lo scorso anno in un’intervista a Vogue firmata all’ex top model Naomi Campbell nella quale ha anche definito il loro rapporto come contraddistinto dalla “massima collaborazione creativa”.
 
Primo fronte su cui si ritrovò all’opera su il nuovo iMac presentato nel maggio del 1998, dove si percepirono subito le potenzialità del sodalizio: per la prima volta un computer da tavolo si preoccupava non solo delle prestazioni ma anche dell’aspetto estetico, per certi versi del suo ruolo sociale. Un unico pezzo che inglobava monitor, Cpu e altri elementi, linee sinuose, plastiche colorate da cui si intravedeva l’interno, addio al floppy disk, benvenuto alla porta Usb, accessori in linea con lo stesso approccio. Dopo quel G3 nulla sarebbe stato più come prima passando – sempre per rimanere in tema di pc – dal G4 del 2002, quello con la base semicircolare e il braccetto a supporto del display o al G5 di due anni più tardi, fino all’ingresso dell’alluminio nello chassis nel 2007 o l’unibody del 2009 che avrebbero aperto la strada agli iMac di oggi e al mostruoso iMac Pro.
 
Negli anni Ive ha firmato o supervisionato prodotti che avrebbero reinventato l’elettronica di consumo rendendola più semplice, più facile, aumentandone stile e usabilità e creando un mercato premium ma pur sempre di massa. Basti pensare all’iPod, oggi superquotato come una reliquia sacra, il lettore che nel 2001 terremotò il mondo della musica e dell’intrattenimento: non che non ci fossero prima dei lettori mp3 portatili ma anche in quel caso la coppia Jobs-Ive riuscì a fare meglio ciò che era stato fatto prima, e male. Un prodotto così longevo da resistere ancora oggi con l’ultima versione, Touch, rilanciata proprio alcuni mesi fa e che negli anni ha visto alternarsi varianti per ogni gusto, colore e tipologia di utente e attività: sei generazioni dell’iPod Classic, quattro dell’iPod Shuffle, due del Mini, ben sette dell’apprezzatissimo Nano e appunto sei del Touch, che esordì nel 2012. Semi che hanno germogliato negli anni a partire da quel periodo incredibile.
 
In una staffetta col suo stesso lavoro di una quindicina di anni prima alla Tangerine Ive partorì nel 2006 la nuova serie dei laptop della Mela nel pieno della transizione Apple-Intel, i Macbook Pro, mandando in pensione i “suoi” Powerbook. Non è un caso che le prime vere novità estetiche si sarebbero viste davvero solo dalla seconda generazione del 2008: in fondo, su quei prodotti, c’era la stessa mano. Stesso copione per il Macbook, che sostituì gli iBook. Un paio di anni dopo arrivò il computer portatile che ha cambiato le abitudini di generazioni di utenti e professionisti: il leggerissimo Air, anch’esso riprogettato lo scorso autunno dopo anni di silenzio: corpo in alluminio, altezza variabile, nessun supporto ottico, peso poco sopra 1,3 chili, perfetto per gli zaini di un mondo del lavoro e delle professioni che iniziava a mutare e dalla stabilità degli uffici veniva travolto dalla precarietà della crisi mondiale.
 
Poco dopo arrivò l’iPhone, senza dubbio il prodotto più iconico del gruppo, giunto oggi alla generazione XS – per settembre sono attesi nuovi modelli – lanciato nel 2007, quindi in una fase davvero irripetibile in termini di stimoli creativi considerando anche l’arrivo dell’iPad, il tablet che oggi dispone anche di un suo sistema operativo dedicato, nel 2010. L’evoluzione di iPhone – plastica, alluminio, vetro, scocca unica, centralità al tocco e allo sterminato ecosistema delle applicazioni - è forse lo specchio più chiaro, lampante e popolare del lavoro di Ive: produrre lo stesso telefono, mantenere lo stesso feeling, cambiando però in profondità di anno in anno. Oggi il dispositivo visto al Macworld del 2007, il 2G, ma anche il 3G, è ovviamente un pezzo d’antiquariato rispetto a un XS appena sfornato da qualche maxifabbrica cinese. Eppure anche un marziano sbarcato ieri sera sulla Terra saprebbe inserirlo nella medesima famiglia, nella stessa linea estetica, cioè in un percorso irripetibile durato in fondo appena 12 anni (anche se sembrano molto di più) che è fruttato un miliardo di pezzi venduti al 2016.
 
Poi per molto tempo si sarebbe trattato di nuove versioni dei diversi dispositivi, aggiornate e più o meno potenti o innovative oppure archiviate spesso sotto silenzio, lasciandole sfiorire senza mai firmarne un decreto di morte ufficiale. Quasi con l’impressione che in Apple ogni prodotto possa all’improvviso resuscitare in altre fattezze e forme ( Fino al primo vero nuovo prodotto che avrebbe visto la luce solo nel 2014 e, di nuovo in un colpo di coda, tenuto a battesimo una nuova categoria di prodotto: l’Apple Watch – il computer da polso-gioiello – accompagnato, un paio di anni dopo, dagli AirPods, gli auricolari wireless. Ma già dal 2015 Ive ha iniziato a mostrarsi di rado sul palco dei keynote del gruppo, preferendo affidare la sua voce ai brevi video lanciato dal Ceo Tim Cook incaricati di svelare il gadget di turno. Addirittura, per molti quella roboante carica di “chief design officer”, pensata per lui nel 2015 e che non vedrà un successore un po’ come si fa coi numeri di maglia dei grandi campioni nelle squadre di calcio, rappresentava già un primo passo di una lunga e morbida strategia d’uscita che entro l’anno arriverà al traguardo.